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(it) Italy, Sicilia Libertaria #462 - Storie nostre. I Cimiteri della mafia. (ca, de, en, pt, tr)[traduzione automatica]

Date Tue, 21 Oct 2025 07:52:56 +0300


Non so se scoprire un cimitero di mafia, sia di per sé una grande notizia. Per me lo fu, poco dopo gli attentati del '92, nei pressi di San Giuseppe Jato, a due passi da dove dieci anni prima erano stati uccisi Saro Riccobono e altri quattro. Ma neanche questo, messa da parte l'oggettiva complessità dei luoghi, è per me molto importante. Del resto si tratta di una storia che, ripercorsa anni dopo, sa di racconto tragicomico, quasi fantozziano. Una calotta cranica sporgente nei detriti di pizzo Mirabella, ai lati del torrente del Vallone Procura. Calotta scambiata per una sorta di conchiglia informe, estratta, manipolata e infine, resomi conto di cosa avevo in mano, interpretata come un uomo del Mesolitico che riuscii a portarmi a casa. Allora, studente di Scienze Naturali, la vidi così. Sembra incredibile ma questo è quello che è veramente successo almeno fino a quando alcune persone alle quali mi ero rivolto per la "determinazione", mi aprirono gli occhi. Ne conseguì una quasi corsa dai carabinieri e altri colpi di scena. La notizia andò su tutti i giornali: quattro scheletri vennero estratti. Un fatto che non ho mai nascosto, sebbene sia rimasto fino ad ora inedito. Infine, dopo non molte insistenze di alcuni amici, ho deciso di pubblicare il tutto in un libro che ho titolato per quello che è esattamente successo: "Come scoprire un cimitero di mafia a San Giuseppe Jato e portarselo a casa". Perché quella "necropoli Corleonese" (così la definirono i giornali) mi ha consentito di "rivedere" luoghi e sensazioni fino a centrare il tutto su un concetto che oggi appare sbiadito: la mafia non la si vuole vedere perché è molto vicina a noi. Riusciamo a traviare la sua stessa storiografia facendola partire dal mondo contadino che, con distacco di classe, additiamo come brutale, incolto o, per dirla con una parola da piena accezione negativa, "viddano". Invece la mafia non nasce tale: si vede apparire lungo la scia della gestione della violenza che era dei nobili dei feudi e poi della borghesia che nei primissimi decenni dell'800 uscì dal suo oblio sociale. I feudi dove girava l'economia di allora (solo apparentemente cancellati ma sostanzialmente riapparsi con il latifondo) passavano di mano; i nuovi proprietari erano rampanti borghesi con solidi agganci in politica, pronti a prendere in mano (anche armata) la gestione di un sistema economico che si basava sul più avvilente controllo delle masse contadine che continuavano a essere private di tutto. I nuovi padroni erano notabili, comunque persone facoltose ascrivibili ai cosiddetti galantuomini, ove per tale termine si intendeva un prestigioso ruolo di classe. Tra di essi, secondo lo storico Giuseppe Carlo Marino, traggono origine i padrini mafiosi. La mafia difendeva gli interessi della borghesia, perché borghese era essa stessa. Di esempi ve ne sono molti e nel libro ho cercato di lasciarne traccia, mischiando anche con storie del mio vissuto, perché la mafia (volutamente oppure no) tutti l'abbiamo respirata. C'è chi l'ha rigettata e chi ne ha fatto, solo con apparente distacco, dis-onore di classe. Ma in quelle montagne io vivevo la mia Anarchia. Andavo per gli uccelli (l'ornitologia è sempre stata la mia passione) e avevo quasi la sensazione di stare a rileggere Storia di una montagna del geografo anarchico Elisée Reclus, che la Natura la "sentiva" rilevando aspetti precursori dell'ambientalismo. Reclus era stato a Palermo, aveva descritto nella sua Nuova geografia universale stampata nella seconda metà dell'800, il contrasto tra i palazzi nobiliari e la povertà delle masse; poi il numero degli affiliati palermitani della «maffia», stimati tra 4000 e 5000 unità. Io, invece, ho scritto solo un racconto dove ho rivisto la mafia a me "vicina", non quella degli assassini (per fortuna non ha mai sfiorato la mia famiglia), ma quella del "sacco", dei notabili che ho avuto modo di conoscere, del perbenismo, delle chiese della Palermo bene e del razzismo verso i quartieri poveri (ovviamente additati di "mafiosità"). Ho rivisto la Conca d'Oro e il vallone Procura che salutai tra i carabinieri con piccozze e vanghe, ormai avvolto dal buio che portava gli odori della macchia sempreverde. In quegli anni avvennero gli attentati più clamorosi, per rilevanza degli uccisi e per deflagrazione. Solo chi non vuole vedere fa finta di non pensare al potenziale eversivo di quei fatti, finora rimasti senza verità giudiziaria sui possibili reali mandanti. Era già successo, quando lo Stato aveva inviato per una repressione poliziesca il famoso Cesare Mori ed ancor prima il prefetto Malusardi. Ce ne scordiamo, ma la piramide criminale era stata ben descritta proprio per Partinicese già diversi decenni addietro mentre, ancor prima, erano note le associazioni mafiose e la stessa strutturazione dell'organizzazione che, con l'arrivo di Lucky Luciano nel dopoguerra, diventerà la Cosa nostra siciliana. Gli aspetti da farsa fantozziana non sono solo del mio tragicomico ritrovamento, ma anche nel modo con il quale il grande pubblico ha appreso di termini quali commissione mafiosa e sue diramazioni in famiglie e decine. Terminologia resa nota con il "fascinoso" film Il Padrino. C'era praticamente tutto, ivi compresi i "pentiti", amicizie influenti, gli stimati professionisti. In quegli anni, politici e prelati palermitani negavano, però, l'esistenza della mafia. Non se ne erano accorti? La sua eliminazione non poteva che avvenire nell'ambito di una rivolta sociale che, però, quando si scatenava (l'esempio più formidabile è quello dei Fasci dei lavoratori siciliani), veniva eliminata dallo Stato e dalla stessa mafia. Forse ha ragione Ciro Troiano, criminologo, che, nella prefazione al libro, ricorda come da ragazzo, a casa di un parente, mi cadde in testa Dio e lo Stato. Senza quell'evento irrequieto che ancora oggi "sento", sono certo che quel pezzo di scheletro che mi portai a casa, non l'avrei mai trovato.

Giovanni Guadagna

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