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(it) Cenerentola n.45: Che cosa accade in Sudan?

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Date Thu, 11 Nov 2004 11:07:01 +0100 (CET)


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Il 25 ottobre i rappresentanti del governo sudanese e dei due movimenti
ribelli attivi nella regione del Darfur, nel nord ovest del Sudan, hanno
ripreso i colloqui presieduti dall’Unione Africana in Nigeria. I
colloqui, che hanno il compito di porre fine agli scontri scoppiati nel
febbraio 2003, erano iniziati lo scorso agosto.
La questione sudanese sta sempre più prendendo piede nelle cronache
internazionali. Le guerre di lunga data interne al paese tra forze
governative e ribelli, a cui si è aggiunto dallo scorso anno lo scenario
del Darfur, sembrano non avere fine. Ma, ultimamente, qualcosa
nell’interesse delle grandi potenze mondiali è cambiato. Il 30 agosto era
scaduto un primo ultimatum dell’ONU affinché Khartoum ponesse fine agli
scontri che infiammano il nord-ovest del Paese, pena eventuali sanzioni
economiche. A metà settembre, dopo lunghe discussioni, è passata all’ONU
la risoluzione numero 1556 sulla questione del Darfur, proposta dagli
Stati Uniti d’America, con undici voti a favore e quattro astensioni, tra
cui quella della Cina.

In essa vengono minacciate sanzioni petrolifere se il governo di Khartoum
non interverrà al più presto per disarmare le milizie Janjaweed, che si
contrappongono ai due gruppi ribelli attivi in Darfur e sono accusate
dalla comunità internazionale di massacri verso la popolazione civile. La
regione è ormai divenuta una zona assolutamente insicura e colpita
quotidianamente dagli effetti degli scontri e delle carestie. Quello che
più colpisce è che, come spesso avviene, il pronto "intervento
umanitario" da parte di potenze occidentali e della comunità
internazionale sia rivolto verso una zona ricca di petrolio e risorse
naturali.

La guerra civile in Sudan ha origini lontane. Un primo conflitto
insanguinò il Paese, nelle regioni meridionali, tra il 1955 e il 1972,
quando il gruppo ribelle dell’SSLM (Southern Sudan Liberation Movement)
firmò la pace con il dittatore sudanese Nimeiri. Ma poco più di dieci
anni dopo, nel 1983, era la volta di un nuovo scontro. I ribelli
dell’SPLA/M (Sudan People’s Liberation Army/Movement), guidati da John
Garang, che aveva ricevuto in passato addestramento negli Stati Uniti, si
rivoltarono contro le forze governative.

La guerra, mascherata da sempre sotto la facciata delle divisioni
etnico-religiose, nasconde invece la più realistica motivazione della
spartizione dei giacimenti petroliferi, di cui il sud del Sudan è ricco.
I combattimenti hanno aggravato la condizione della popolazione civile,
costretta il più delle volte ad abbandonare la propria terra, oppure
uccisa dalle milizie delle diverse fazioni. Oltre alle forze governative,
dal 1989 guidate da Omar Hassan al-Bashir, e ai gruppi ribelli, le
compagnie multinazionali hanno da tempo guardato con grande interesse
alle ricchezze del Paese. Alcune compagnie sono state addirittura
accusate di aver assoldato milizie private per scacciare la popolazione
locale. Gli scontri, iniziati nel 1983, sembrano avere raggiunto un punto
di svolta solo il 26 maggio 2003, quando è stata firmata la pace tra
governo sudanese e ribelli dell’SPLA/M.

Ma non erano ancora finiti i venti di guerra nel Sud che già emergevano
nuovi gruppi ribelli al Nord, nella regione occidentale del Darfur,
divisa in tre stati. A partire da febbraio, infatti, un gruppo di etnia
Fur, sostenuto a quanto sembra da SPLA/M e da alcune potenze straniere,
si è sollevato contro il governo di Khartoum, che ha risposto agli
assalti. Il nome inizialmente preso dal gruppo ribelle, guidato
dall’avvocato Abdel Wahid Mohamed Nur, era quello di Darfur Liberation
Front. Una volta unitosi ad altri gruppi etnici, quali Masalit, Berti e
Zaghawa, il gruppo ha assunto il nome di Sudan Liberation Army, SLA. Gli
attacchi dei ribelli ben armati si sono rivolti soprattutto ai
commissariati di polizia e alle postazioni dell’esercito. La reazione del
governo ha consistito nello spostamento di unità militari dal sud del
Paese verso la regione dove si trovano i nuovi insorti, e nel tentativo
di chiudere le frontiere con Ciad e Libia. Le forze incaricate di sedare
le ribellioni sono composte sia da frange dell’esercito regolare sudanese
che da militanti del movimento armato dei Janjaweed. Verso la fine
dell’estate sono iniziati i contatti tra governo sudanese e SLA, che
hanno portato ad un primo e provvisorio cessate il fuoco. Nel frattempo,
però, emergeva un altro gruppo ribelle, l’MJE (Justice and Equality
Movement), guidato da Khalil Ibrahim. Così, nonostante la sottile tregua,
la guerra è continuata. Ma il governo, nel tempo meglio organizzatosi, è
riuscito ad ottenere diverse affermazioni. Il 9 febbraio 2004 il
presidente al-Bashir ha decretato la fine delle operazioni militari, ma
la pace era ancora lontana, soprattutto all’esterno dei centri urbani. E’
a marzo che l’ONU ha iniziato la propria denuncia degli scontri e delle
razzie in corso nella regione del Darfur, parlando anche di un possibile
intervento internazionale. Un nuovo cessate il fuoco, di quarantacinque
giorni, è stato firmato l’8 aprile da Khartoum. Ancora una volta le
speranze di pace erano però molto lievi. Gli scontri non sono finiti e le
pressioni della comunità internazionale si sono fatte sempre più pesanti.


La responsabilità delle centinaia di migliaia di profughi e delle diverse
migliaia di morti è stata attribuita da media e paesi occidentali
principalmente alle milizie filo-governative dei Janjaweed, a cui
Khartoum ha più volte negato la vicinanza. Nei mesi più recenti gli
scontri non sono diminuiti e la risoluzione approvata a settembre dal
Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che affida grande responsabilità
all’Unione africana per la conduzione dei negoziati, farà fatica a
trovare una soluzione.

Il Sudan, come detto, è un paese ricco di petrolio. E’ divenuto però
ufficiale esportatore di oro nero solo dal 1999, anno in cui la
produzione ha subito un notevole incremento grazie allo sfruttamento del
bacino di El Muglad, a 800 chilometri a sud-ovest di Khartoum. La prima
esportazione è avvenuta, infatti, nell’agosto 1999, con la partenza di
una petroliera carica di barili verso Singapore. Negli ultimi anni le
autorità di Khartoum, una volta imparato a mettere a frutto maggiormente
le proprie risorse petrolifere, hanno stretto rapporti privilegiati di
collaborazione economica con alcuni Paesi, tra cui la Cina. Per far
questo hanno dato vita ad una campagna militare per bonificare le aree
intorno ai campi petroliferi, spesso con azioni brutali ai danni della
popolazione locale, ignorate dalle compagnie estere interessate.

La guerra, che da moltissimi anni ormai imperversa nel Paese, è stata
ripetutamente incitata da potenze straniere, sotto l’ombra del conflitto
etnico. Gli scontri interni però hanno avuto come principale motivazione
proprio la contesa del petrolio, le cui riserve sono stimate in Sudan tra
i due e i tre miliardi di barili (un barile corrisponde a circa 159
litri). E l’attenzione internazionale è anch’essa mobilitata ancora una
volta dall’interesse petrolifero. Il 27 di luglio gli USA hanno
consegnato nelle mani delle Nazioni Unite una prima bozza di risoluzione
per la questione del Darfur, la cui versione definitiva è stata approvata
a settembre. L’accusa principale a Khartoum è quella di essere
responsabile di un "genocidio" nei confronti della popolazione civile,
perpetrato dalle milizie dei Janjaweed. La denuncia non considera però
che gran parte delle sofferenze dei civili sono in realtà provocate dagli
scontri tra fazioni ribelli di diverse etnie, in atto ormai da decenni, e
che la risoluzione non contempla, e non solo dall’intervento governativo.
La determinazione degli Stati Uniti non è stata condivisa da alcuni
membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, tra cui Pakistan, Russia e
Cina che, se prima aveva fatto intendere di poter anche porre il veto,
alla fine si è astenuta. Il compromesso è stato raggiunto dopo che gli
USA hanno deciso di modificare l’esplicita espressione "sanzioni" con la
più morbida e ambigua "misure", che sarebbero applicate contro Khartoum
in caso di non rispetto dei dettami della risoluzione.

L’industria petrolifera del Sudan è oggi in costante crescita.

E’ spartita tra una compagnia petrolifera nazionale, una cinese, una
francese, un’indiana ed una di provenienza malese, ma molti altri
consorzi, compagnie e nazioni sono attratti da probabili proventi. Il
nostro Paese si dimostrò coinvolto fin dagli anni Cinquanta nella ricerca
di giacimenti petroliferi, che però allora sembravano molto ridotti. La
stessa Russia sembra interessata a costruire a breve una parte di un
oleodotto in zona sudanese.

L’intento degli Stati Uniti, che dovrebbe passare attraverso la
legittimazione della risoluzione dell’ONU, sembrerebbe proprio imporre un
embargo nei confronti di Khartoum che porterebbe al blocco delle vendite
all’estero. Il possibile "intervento umanitario" ipotizzato dalla
risoluzione rischia di trasformarsi in una nuova guerra di conquista, che
punta all’accaparramento di risorse e alla limitazione della sovranità di
un Paese, come già avvenuto troppe volte nel continente africano.

La fine dei conflitti interni con l’instaurazione di un governo "amico"
potrebbe consentire alla potenza statunitense di subentrare ai suoi
rivali internazionali, già da tempo coinvolti negli affari economici
sudanesi. I giacimenti promettono inoltre un possibile aumento di
produzione. La catastrofe e la sua soluzione in un certo senso venale,
come sempre, finiscono per colpire la popolazione civile, già stremata da
anni di guerra e da condizioni climatiche e territoriali al limite della
sopportazione.

Troppi drammi sono stati dimenticati a lungo dalla comunità
internazionale, ma purtroppo bisogna ammettere che in quei casi non
c’erano possibilità di provento. Il Sudan è dunque divenuto a pieno
titolo una nuova importante e fresca pedina dello scacchiere
internazionale, avido di petrolio e prodigo di guerre.

Ilaria Leccardi


da Cenerentola, Quindicinale libertario 2 novembre 2004, anno 3-n.45
http://www.cenerentola.info





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